C’est la vie – Prendila come viene, titolo originale Le sense de la fête, è una commedia agrodolce che segue un plot standard.
Primo minuto per introdurre il personaggio: scontroso wedding planner più snob dei suoi clienti snob.
Introduzione alla situazione: matrimonio come pretesto per organizzare un evento che rappresenti l’alto posizionamento sociale degli sposi.
Esposizione delle dinamiche di gruppo: le prime stelle dello spettacolo che devono andare in scena, (il matrimonio viene interpretato come uno show), in rivalità tra di loro; il cliente che pretende la luna, ma ad literam, (od una sua rappresentazione, quanto meno), l’immancabile crisi personale del protagonista sullo sfondo, (il banale tentennamento tra moglie e amante).
A questo punto mancherebbe il climax con “Il problema”, che dovrebbe mettere tutti in crisi e la cui risoluzione dovrebbe portare ad una riconciliazione generale.
Sì, ma invece di uno, ne avremo svariati, che costituiscono molte variazioni sullo stesso tema, (avrebbe giovato al film averne qualcuna in meno), costituenti tanti rotoli che tutti contemporaneamente si dipaneranno, quasi magicamente, (la luna di cui sopra farà la sua parte).
Situazione classica che affonda le sue radici nel vasto repertorio filmico nato sotto l’egida dello show must go on, ove lo show qui è ciò in cui è stato trasformato il matrimonio, con tanto di camerieri in costume, location settecentesca e perfomance finale.
Schema classico anche per i caratteri, che rimangono a livello macchiettistico e non si trasformano mai in personaggi; a mala pena si indugia un po’ di più sulle dinamiche del protagonista, salvo fare poi marcia indietro con un finale che trova senso solo nelle logiche del consumo, (“Ollivud” docet), ma non nell’evoluzione del personaggio, così come si era sviluppata durante le quasi due ore di visione.
Anche l’etnia della co-protagonista, ci sembra più un’autocitazione che una particolare necessità dello script, (il focus della campagna pubblicitaria del film è la citazione del successo del regista Quasi amici).
Gli intellettuali camerieri, che disquisiscono in latino e di linguistica francese, ci ricordano tanto il ciclo nostrano di Smetto quando voglio; i lavoratori stranieri sono anch’essi caratterizzati solo in quanto tali e privi di loro precipua identità.
Dopo il momento più delicato del film, quello in cui viene ricordato che alla base dello show c’è, forse, l’amore, se non degli sposi, quanto meno l’amore che ci gira intorno, per dirla alla Fossati, si arriva al culmine delle difficoltà.
Abbiamo qui alcuni minuti in cui il protagonista esprime il suo disagio, con uno sfogo urlato e pleonastico, gratuito nella sua prolissità, che francamente disturba il pubblico, che ha già, poi, a questo punto, intuito i segnali che preludono al happy end.
E dopo questo stridìo tra romanticismo e realismo gridato, abbiamo la risoluzione del problema, che avviene per magia.
Tutti gli elementi che c’erano prima, permangono. Per il protagonista, però, di modo non razionalmente spiegabile e senza che il regista ce ne faccia intuire le motivazioni e ci dia tempo di assimilarle, tutto cambia e con tutto/i si riconcilia. Magicamente.
Ecco, forse la magia è il vero tema del film. Ed il finale può essere interpretato così: la magia non si crea, essa compare come fluida conseguenza delle circostanze spontaneamente venitesi a creare.
In sintesi, potremmo dire che la mescolanza dei toni, grottesco, comico, realistico e a tratti drammatico, fatica a volte a trovare un equilibrio; la forza della commedia si regge per lo più sulle solide spalle di Jean Paul Bacri: vero mattatore ed onnipresente sullo schermo per i molti minuti del film.
Quando l’armonia c’è, ne vengono fuori delle scene gradevoli e, a tratti, divertenti.
Il resto è standard.