Everything Everywhere All At Once è davvero un film da Oscar?

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Scritto e diretto da Daniel Kwan e Daniel Scheinert, Everything Everywhere All At Once, film di fantascienza con Michelle Yeoh e Jamie Lee Curtis, ha rapito l’attenzione di molti appassionati di cinema perché ha vinto sette Oscar.

Il film racconta la storia di Evelyn, una donna cinese-americana che lavora in una disordinata lavanderia, che scopre all’improvviso di poter accedere a infinite realtà alternative.

Insieme a un gruppo di improbabili alleati, dovrà fermare una minaccia che vuole distruggere il multiverso.

Il film è un mix di azione, umorismo e filosofia, che esplora temi come il libero arbitrio, l’identità e il destino, diviso in diversi paragrafi, ognuno dei quali è caratterizzato da un tema predominante.

Se la prima parte del film è incentrata sulla descrizione della trama, prettamente fantascientifica che prende in prestito tante atmosfere dalla serie dei film Matrix, la seconda e la terza parte differiscono notevolmente dalla prima.

Quando la sceneggiatura di Everything Everywhere All At Once finisce di mostrare come Evelyn approccia al multiverso, incuriosendo lo spettatore, il racconto cinematografico vuole espandersi in nuove sotto-trame, che prendono vita e spunto dalle proprietà delle dimensioni parallele.

Iniziano così a fioccare situazioni paradossali e alcune privo di senso, proprio come si addice alla tipica comicità orientale.

Se dapprima Evelyn appariva come una donna stressata e dedita alla famiglia, ora nell’infinita possibilità dei metaversi si incarna in una donna che ha scelto di vivere in maniera del tutto differente e che, in alcuni casi, è anche una persona famosa e importante.

E’ questa la parte più bizzarra di Everything Everywhere All At Once, quella che mostra non solo Evelyn impegnata ad essere qualcun’altra, ma anche immersa in combattimenti che mostrano siparietti non solo spettacolari ma anche al limite della volgarità.

Una volgarità, sia ben chiaro, che si incastona perfettamente nella paradossale trama del film, ma che potrebbe essere mal-digerita dal alcuni spettatori rimasti ammaliati dall’anima fantascientifica della trama e che volevano continuare a vedere un film del genere, e non una storia che sceglie di perdersi in un mare di no-sense e di frivolezze tecnologiche.

La terza parte, quella più breve, si concentra sui sentimenti e su di una morale costruita per dare un senso a tutto il costrutto cinematografico. Durante queste scene si palesa l’anima più emozionale del film di Daniel Kwan e Daniel Scheinert, che fra un calcio volante e l’ennesima miriade di effetti speciali riesce, in effetti, a dare una carica emotiva non indifferente.

In definitiva, Everything Everywhere All At Once è un film che ha meritato tutti questi riconoscimenti? Se reputate l’Oscar come un premio inteso per lodare un film diverso, che sfoggia una sceneggiatura fantascientifica mai banale e gestita con idee sui generis e coraggiose, allora si, le statuette ottenute sono giuste.

D’altronde non tutti i giorni nei cinema arrivano commedie surreali e metafisiche che esplorano temi come l’identità, la famiglia e il destino. E questo è un valore aggiunto del film che non è giusto ignorare.

Se, differentemente, reputate l’onorificenza dell’Oscar adatto solo a film di tutt’altra caratura, allora siete piombati in un meta-verso che non fa al caso vostro.